INTERVISTA A CARLA LOCARNO

Intervista a Carla Locarno, una delle ultime staffette partigiane del varesotto

SAMARATE , 27 aprile 2013 – di SARA MAGNOLI –
“È  tutto concatenato, soprattutto se vieni da una famiglia che odia il fascismo, causa dei nostro mail peggiori”.

 

Sta tutto lì, nella semplicità quasi scontata, ma non certo banale, di quelle parole la spiegazione di come mai ragazzi di quindici, sedici, diciott’anni decidessero di “servire” la Resistenza. Di diventare partigiani, di lottare anche con le idee, di fare “le staffette”, anche se lavoravano di giorno e studiavano di sera. Come Carla Locarno, una delle ultime, se non l’ultima, staffetta partigiana legata alla Prima Brigata Lombarda. Quella dove si trovava partigiano suo fratello Nino, classe 1921, quattro anni più “grande” di lei. E che, con altri quattro suoi compagni, è stato trucidato dai fascisti il 5 gennaio del 1945 a Ferno. La storia dei “cinque martiri” ancora oggi momento di commemorazione, riflessione, testimonianza a Ferno e a Verghera di Samarate.
Verghera di Samarate, sì, perché lì viveva Nino Locarno e lì ancora oggi vive sua sorella Carla. La spiegazione di che cosa portasse allora poco più che ragazzini a impegnarsi nella lotta per libertà è la sua. Di questa donna forte e simpaticissima, che non manca a una celebrazione del 25 aprile né del 5 gennaio, né a nessuna in cui si parla di liberazione dalla guerra, di lotta perché oggi il nostro Paese sia libero. E che tanto testimonia nelle scuole di quella storia, di quella memoria che non va cancellata.
Suo padre, Carlo, lavorava nelle ferrovie e aveva scioperato nel ’22, perdendo il lavoro e non riuscendone più a trovare un altro. Per questo era emigrato in Francia, a Villerupt, in Alsazia Lorena, dove lavorava in miniera e suonava il corno nella banda musicale, nascondendo volantini antifascisti tra gli spartiti musicali. Perché antifascista lo era da sempre. E qualcuno, sapendo di questi volantini, nel 1933 fece la spia. Costringendo lui, la moglie Maria, e i piccoli Nino e Carla a fuggire, tornando in Italia. “Per fortuna erano riusciti ad avvisarci. Era sotto Natale – racconta Carla Locarno -, sul treno sentivamo la polizia che ci cercava, gridava “Locarnò, Locarnò”. I nostri genitori ci avevano raccomandato di non rispondere a nessuno sentendo il nostro nome. Così siamo riusciti a scappare”. E, a Verghera di Samarate, ad aprire un’osteria, la “Trattoria Roma”, che il “Comandante di Settore della Zona di Sicurezza di Cardano al Campo”, così si legge su un documento datato 26 settembre 1944, aveva dato ordine di chiudere totalmente e a tempo indeterminato. Perché Carlo Locarno era “sospetto di collaborazione sul disarmo di militari Germanici, oltre che sospetto di rapporti con partigiani”. Lì, certo, gli antifascisti ci andavano.
La storia di Carla, che il 25 aprile del 1945 l’ha vissuto in prima persona (“nevicava”, ricorda oggi), è quella di una ragazza coraggiosa, che per questo suo impegno, per questo suo ideale, è stata anche arrestata, con la sua mamma. E ha rischiato di essere deportata in un campo di concentramento in Germania. Salvata da un medico, che si è prestato a farle un documento che la dichiarava ammalata di “deperimento organico e due pleuriti”, riuscendo anche a evitare altri controlli sanitari. Ma che in carcere, a San Vittore, ci è dovuta restare un bel po’.
“Il 25 aprile del 1945 ricordo una gran festa – racconta oggi Carla Locarno, con una lucidità e una memoria eccezionali -, faceva tanto freddo, ma la gente era tutta in giro, non si capiva più nulla”.
Negli anni Carla, che ha sposato un partigiano, Giuseppe Puricelli, ha continuato a ricordare. Lasciando una traccia importante. E ascoltarla fa sentire più vicino lo spirito di sacrificio e di coraggio di chi ha permesso, oggi, di festeggiare il 25 aprile.
s.magnoli@varese7press.it

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