EDITORIALE L'UNITA'

La fine di un’era
06 aprile 2012

Le dimissioni di Umberto Bossi, travolto dallo scandalo sei mesi dopo la caduta del governo Berlusconi, segnano la fine ingloriosa del ciclo decennale dominato dalla destra populista. Speriamo sia anche la fine della Seconda Repubblica, che Berlusconi e Bossi hanno piegato verso esiti drammatici per il sistema-Paese e per i suoi equilibri istituzionali. Questo passaggio però è più nelle mani di chi oggi ha raccolto la sfida della ricostruzione che non in quelle di chi è stato costretto al ritiro dall’evidente fallimento.
Bossi ha gettato la spugna tra mille paradossi. È stato travolto da sospetti di appropriazioni indebite, persino dei propri familiari, dopo aver fatto fortuna con quel motto «Roma ladrona» che segnava l’alterità della Lega delle origini, oltre che il suo potenziale razzismo. In realtà il Carroccio ha sempre convissuto con scandali, inchieste imbarazzanti, operazioni al limite della legalità (e talvolta oltre): dai 200 milioni del primo amministratore Patelli al crac della banca Credileuronord, ad episodi di corruzione locale, agli spericolati investimenti esteri con i denari del finanziamento pubblico. Tuttavia ha sempre fatto premio l’identità carismatica del movimento, la fedeltà al capo, la disciplina organizzativa. Qualcuno ha detto che la Lega è stata il solo partito leninista sopravvissuto alla caduta del Muro. Di certo, è stato il solo partito italiano ad essere entrato nella Seconda Repubblica con il nome e il simbolo che tuttora compongono la sua ragione sociale.
Ma quel mastice ora non ha più tenuto. Almeno per due ragioni. La prima è che lo scandalo stavolta travolge direttamente il leader maximo, il Senatur. E siccome il sospetto sembra essere quasi una certezza per lo stato maggiore della Lega – nel senso che tutti erano consapevoli di questa spericolata finanza di partito, gestita in modo anomalo e asfissiante dei familiari e/o dai famigli di Bossi – è evidente che l’inchiesta della magistratura e i suoi primi risultati si sono abbattuti come una mannaia sul vertice politico. Il declino psico-fisico del leader è diventato di colpo insopportabile, insostenibile. Forse lo è diventato per lo stesso Bossi, che magari si è sentito tradito da chi gli sta più vicino.
C’è però anche una ragione politica. Se il leader carismatico ha fondato il partito e ne ha garantito l’unità, nonostante le profonde divisioni interne, oggi il fallimento non può riguardare solo una persona. È la struttura del partito personale a mostrare ancora una volta la propria inadeguatezza a misurarsi con società evolute, per di più alle prese con una crisi di competività e di tenuta sociale. In questo senso il crac di Bossi somiglia a quello di Berlusconi e lo completa. Il populismo sembrava una scorciatoia vincente, benché pagata ad alto prezzo. Ora invece è chiaro a tutti che è stato il propellente del nostro declino, la ragione che ha portato l’Italia a precipitare in tutte le classifiche europee e mondiali.
La Lega aveva anche tentato un salto mortale, passando in poche settimane da difensore arcigno delle politiche del governo Berlusconi – l’alleato più fidato, se si pensa che invece Casini e Fini sono stati espulsi dal centrodestra – a scatenato contestatore. Incuranti del fatto che dieci anni fa hanno sostenuto un governo che voleva cancellare l’articolo 18, ora i leghisti si erano messi a difenderlo, così come avevano dichiarato guerra ai provvedimenti di Monti dopo aver sostenuto i più vergognosi del governo precedente. Ma la piroetta non poteva riuscire con la struttura del partito carismatico, mentre il leader perde il carisma.
La drammatica crisi della Lega non annulla certo le ragioni e gli umori che l’hanno generata. Anzi, il deficit di credibilità della politica rischia oggi di allargare ulteriormente le distanze tra il malessere dei cittadini e la rappresentanza nelle istituzioni. Ma c’è una chance per chi vuole ricostruire il tessuto democratico che è stato strappato e, al tempo stesso, far ripartire il Paese. Bisogna giocarsela con intelligenza, passione e rigore etico. La soluzione trovata sulla riforma del mercato del lavoro, dopo un primo, grave errore del governo Monti, è un incoraggiamento per i riformatori e i democratici. Non è vero che la politica è finita e che il teatrino offre passerelle solo a leader solitari. Non è vero neppure che il governo dei tecnici esprime la sola linea possibile per un Paese «osservato speciale» come l’Italia. È vero invece che si può coniugare innovazione e coesione sociale, come non ha mai fatto la destra populista e come stava rinunciando a fare il governo Monti.
La politica può tornare ad essere competizione tra alternative legittime e possibile. Le istituzioni possono tornare all’equilibrio della Costituzione, senza le torsioni presidenzialiste del partito personale e del maggioritario di coalizione. A condizione che si usi il tempo del governo tecnico e di questa «strana maggioranza» per cambiare davvero il Porcellum e tornare in Europa. Purtroppo non sono pochi i sostenitori dello status quo: bisogna affrontarli e batterli. Come occorre fare, subito, una legge affinché il necessario finanziamento pubblico ai partiti venga sottoposto a controlli severissimi e imparziali. Il rigore della politica è condizione del suo riscatto. Altrimenti al populismo rischia di seguire il primato degli oligarchi.

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